Dante Diclonius
Numero di messaggi : 301 Data d'iscrizione : 06.02.09 Età : 30 Località : Rakuen
| Titolo: Grande ragazzi siete i migliori Gio Mag 07, 2009 9:52 pm | |
| Celtics: la scalata verso il paradisoNot in our house“, gridava Jack Nicholson dopo la vittoriosa gara-5 allo Staples Center. I Boston Celtics ringraziano, e festeggiano il titolo tra le mura amiche, con una mattanza epocale ai danni degli storici rivali, un 131-92 che passa alla storia come il secondo maggior divario mai fatto registrare nelle NBA Finals, superiore persino a quel Massacro del Memorial Day che nel 1985 illuse la generazione Bird su un back-to-back mai arrivato e che probabilmente costituisce l’unico rimpianto nella carriera del più grande giocatore bianco di sempre. E’ sembrato di rivedere gara-7 tra Boston e Atlanta, quando i Celtics fecero pagare ai giovani Hawks l’insolenza di aver insinuato dei dubbi sulla corazzata messa in piedi da Danny Ainge. Già, le serie contro Atlanta e Cleveland, che col senno di poi si sono rivelate un toccasana per i Celtics, costretti a un viaggio rigeneratore tra gli inferi della scultorea fisicità di Atlanta e del micidiale mix difesa-Prescelto che avrebbe potuto portare Cleveland lontanissimo. Invece sul parquet c’erano dei Lakers che hanno provato a spaventare gli irlandesi con le prime cartucce sparate da un pimpante Kobe Bryant, prima che la difesa di Posey e i furti di un Rajon Rondo versione cleptomane al supermercato sgonfiassero le velleità dei campioni del West. La differenza la faceva poi nel secondo quarto un Kevin Garnett mostruoso, desideroso di cancellare i liberi sbagliati allo Staples Center con una serie di giocate spaventose, compreso un canestro+fallo dal coefficiente di difficoltà altissimo che tagliava le gambe alle mozzarelle Odom e Gasol. I chiodi sulla bara dei Lakers li hanno poi messi le sette triple con cui Ray Allen ha suggellato la sua resurrezione, prendendo in prestito il nome del suo personaggio nel celebre film di Spike Lee. Finisce così una stagione già trionfale nella regular season, e solo per questo bisognerebbe ringraziare i Celtics: dopo anni in cui chi partiva a tutta già da Novembre arrivava ai playoffs con le batterie scariche e in cui il modello imperante sembrava quello degli Spurs: mediocrità fino a Febbraio, lenta carburazione e poi esplosione a Maggio. Le luci della ribalta però sono per due personaggi, Danny Ainge e Paul Pierce. L’ executive dell’anno ha compiuto un autentico capolavoro, e probabilmente starà facendosi delle grasse risate su tutti i rosiconi che pontificavano sulle debolezze delle “squadre costruite a tavolino”, trovando il gusto mix tra campioni affermati e affamati, eminenze grigie alla Posey e giovani alla Rondo che hanno fatto un salto di qualità straordinario. Senza contare che i tasselli dati via per forgiare questo mosaico, da Jefferson allo stupefacente Delonte West, tutto si sono dimostrati tranne che un piatto di lenticchie, come affermavano i consueti pescatori nel torbido. Una lezione che farà scuola dopo gli anni dell’immobilismo tra gli executives. E poi Paul Pierce, il ragazzino di Inglewood che detestava l’Ainge giocatore e il suo campionario di scorrettezze e malizie sul parquet. Il Capitano, con la forza del suo sorriso ha infuso quella solidità mentale che ha fatto la differenza, spazzando via gli anni più bui della franchigia irlandese, ritrovando nel momento decisivo quelle giocate che lo hanno giustamente incoronato MVP delle finali. Per i Lakers la consapevolezza di avere un roster giovane, e che sarà puntellato dal recupero di Bynum e Ariza, deve riuscire superare la delusione per una finale in cui i favori del pronostico, a detta di tutti i più quotati analisti, pendevano verso il Sunset Boulevard. Senza contare che sono emerse tante piccole crepe che Phil Jackson non sembra aver gestito meglio, a cominciare dalla filosofia zen di non chiamare time-out quando la mandria verde usciva dalla stalla. E poi il ruolo di Odom: decisivo contro gli Spurs, nullo nelle finals: col ritorno di Bynum e il suo scalare ad ala piccola, si dovrà trovare la giusta quadratura del cerchio. Per Kobe Bryant, una serie che accontenta tutti: chi lo ama incondizionatamente farà notare la pochezza dei compagni, chi lo detesta metterà il dito sulle sofferenze fatte registrare di fronte a una difesa che riempie l’area, chiude i buchi e sovrannumera il lato forte come nessuno. Ma il tempo è ancora dalla sua parte. | |
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